Autotutela sul lavoro: strumenti e diritti
Come riconoscere e affrontare le dinamiche tossiche nel rispetto della legge e del proprio benessere
Come riconoscere e affrontare le dinamiche tossiche nel rispetto della legge e del proprio benessere
In molti contesti lavorativi, il disagio è diventato la norma. Colleghi ostili, superiori ambigui, pressioni costanti, svalutazione sistematica: tutto questo non è solo “stress da lavoro”, ma può diventare una forma di violenza relazionale, spesso silenziosa, ma non per questo meno dannosa.
Il punto critico è che non sempre chi subisce riesce a riconoscerlo subito: la cultura dell’adattamento, della “resilienza” a ogni costo, ci ha abituati a tollerare anche ciò che intacca la dignità.
L’aggettivo “tossico” è ormai diffuso, ma cosa significa realmente, e quando diventa anche un problema giuridico?
Parliamo di un ambiente disfunzionale quando l’organizzazione del lavoro, o le relazioni interne, generano nel tempo un clima ostile, conflittuale o mortificante. Non è necessario che vi siano aggressioni dirette o urla quotidiane: molto più spesso la tossicità assume forme subdole, difficili da verbalizzare, come:
l’isolamento comunicativo o decisionale;
la svalutazione sistematica del contributo professionale;
l’assegnazione di compiti incoerenti o degradanti rispetto alla propria qualifica;
pressioni e richieste irrealistiche con minacce implicite o esplicite;
messaggi ambigui, manipolatori, che creano confusione e colpevolizzazione.
Si tratta di dinamiche che, prolungandosi nel tempo, minano il senso di sicurezza e autostima del lavoratore, fino a generare sintomi fisici (insonnia, gastrite, cefalea), psicologici (ansia, panico, depressione) e comportamentali (autosvalutazione, isolamento, rabbia repressa).
La legge italiana, pur non usando il termine “tossico”, tutela il lavoratore attraverso una serie di principi fondamentali:
Art. 2087 c.c.: obbliga il datore di lavoro a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del dipendente;
Giurisprudenza sul mobbing: definisce le condotte persecutorie ripetute, volte a emarginare o destabilizzare il lavoratore;
Straining e microconflitti: anche singole condotte, se gravi e lesive, possono generare danni risarcibili (Cass. n. 7067/2018 e successive);
Tutela della professionalità: il demansionamento, l’esclusione immotivata da mansioni o percorsi di carriera costituisce violazione di diritti soggettivi.
In sostanza, un ambiente degradante non è solo una “brutta situazione”: è una violazione potenziale dei diritti costituzionali e contrattuali del lavoratore.
La realtà è che molti lavoratori, anche se colpiti da dinamiche evidentemente ingiuste, non riescono a reagire. Perché? Le ragioni sono molteplici:
Paura di ritorsioni o licenziamento;
Convinzione di essere in parte colpevoli (“forse sono io che non rendo abbastanza…”);
Normalizzazione dell’abuso, specie in ambienti competitivi o gerarchici;
Confusione giuridica: non si sa se e come sia possibile far valere i propri diritti;
Isolamento e mancanza di supporto, che spingono a sopportare in silenzio.
Ed è proprio qui che la consapevolezza personale e l'informazione giuridica si incontrano: autotutelarsi significa rompere questo circolo vizioso.
Esistono diversi livelli di intervento, da quello interno all’azienda fino al contenzioso legale. Ma prima ancora della scelta operativa, è essenziale avere un quadro chiaro della propria posizione. In concreto, un percorso efficace può prevedere:
Raccolta ordinata dei fatti: documentare gli episodi, salvare email, prendere nota di date e contesti. Questo è fondamentale sia in ottica legale che psicologica (serve a mettere ordine e dare “oggettività” al vissuto).
Segnalazione interna: comunicare formalmente la situazione, spesso con l’assistenza di un avvocato o di un rappresentante sindacale.
Coinvolgimento degli organi preposti: HR, medico competente, RLS (rappresentante dei lavoratori per la sicurezza), ispettorato del lavoro.
Scelta di lasciare l’ambiente, quando non esistono possibilità concrete di risoluzione, attraverso le dimissioni per giusta causa, tutelate dalla legge (conservano il diritto alla NASpI).
Avvio di un’azione risarcitoria in sede civile, se il danno subito è dimostrabile in termini di salute, carriera o reputazione.
Tuttavia, non esiste una sola via, né una risposta valida per tutti. Ed è proprio per questa ragione che il lavoratore ha bisogno di affiancamento e chiarezza.
Il legal coach è una figura professionale emergente, nata proprio per aiutare le persone a navigare tra esigenze emotive, difficoltà relazionali e vincoli normativi.
Non si sostituisce all’avvocato o allo psicologo, ma integra la visione legale con gli strumenti del coaching, favorendo un approccio centrato sulla persona, orientato all’azione e alla responsabilizzazione.
Nel concreto, un legal coach può aiutare a:
Decifrare il contesto: capire se ciò che si sta vivendo ha una rilevanza giuridica, o “solo” relazionale;
Ricostruire la narrazione personale: uscire dal senso di colpa o di impotenza, recuperando fiducia e prospettiva;
Stabilire un obiettivo chiaro: restare e cambiare? uscire? far valere i propri diritti? Il coach aiuta a scegliere con lucidità;
Pianificare l’azione: chi informare, come comunicare, quali prove raccogliere, quando agire;
Gestire le emozioni durante il percorso, evitando reazioni impulsive o paralisi decisionale.
Il legal coach lavora sulla consapevolezza, prima ancora che sulla soluzione. E questo fa la differenza, perché chi è consapevole agisce, chi è confuso subisce.
Affermare i propri diritti in un contesto lavorativo ostile può sembrare un lusso. In realtà, è una scelta di sopravvivenza professionale e personale. Nessun contratto, per quanto importante, vale la perdita della salute o della dignità.
Non è una battaglia da affrontare da soli. Le tutele esistono, così come le competenze per attivarle. Ma serve anche una visione integrata: serve comprendere, pianificare, rafforzarsi. Ed è proprio in questo spazio che il legal coaching può diventare uno strumento decisivo.
Riconoscere ciò che si sta subendo è il primo passo. Agire, con intelligenza e supporto, è il secondo. E molto spesso, è anche l’inizio di una nuova fase della propria vita lavorativa — più libera, più consapevole, più autentica.